Apostolica Sedes Vacans - Nexus #5
Dalla fine del mondo al centro: con Papa Francesco, la Chiesa è tornata nella storia. Per questo, il conclave che si apre sarà il più politico – e politicizzato – della nostra epoca.
Tra una manciata di giorni, il prossimo 7 maggio, si aprirà il 78° conclave, nella forma e nella struttura previsti dalla costituzione apostolica “Ubi periculum” del 1274, per eleggere il 267° papa della chiesa cattolica, dopo la fine della vicenda terrena di Papa Francesco, lo scorso 21 aprile. Della sua eredità religiosa, vaticanisti e storici parleranno a lungo, ma quello che è certo è che il suo pontificato abbia segnato il passaggio da un’epoca ad un’altra per la Chiesa, per una serie di ragioni.

Un papa politico
Innanzitutto, Francesco è stato, sotto molti aspetti, il primo vero papa politico dell’età contemporanea. Con questo non intendo dire che Bergoglio abbia fatto politica in senso partitico, o che si sia intromesso direttamente nella vita dei governi. Bergoglio ha innegabilmemte il grande merito di aver riportato la Chiesa dentro la storia, in modo esplicito, attivo, conflittuale. Ha interpretato il suo ruolo non come garante della dottrina da custodire, ma come voce profetica nel mondo contemporaneo, con un’agenda globale costruita attorno a temi politici nel senso più ampio e radicale del termine: la povertà, le disuguaglianze, la crisi ecologica, le migrazioni, la guerra, il dialogo tra culture e religioni, la riforma delle strutture del potere nella Chiesa stessa. Francesco ha parlato al mondo non solo da sovrano spirituale, ma da leader politico globale — e lo ha fatto spesso in discontinuità con i riferimenti dell’Occidente: criticando senza mezzi termini il capitalismo predatorio, l’industria delle armi, il paradigma dello sviluppo fondato sull’accumulazione, la finanza che “uccide”, la cultura dello scarto. Ha insistito su una “teologia del popolo” che nasce dai bisogni, non dai libri. Ha messo in discussione l’assetto centralizzato e clericale della Chiesa, scegliendo il metodo sinodale - ancora tutto da definire -, come forma di redistribuzione del potere ecclesiale. E ha rifiutato la logica degli “scontri di civiltà”, cercando spazi di dialogo con l’islam, con la Cina, con l’umanità dolente più che con gli equilibri di potere.
Un papa dalla “fine del mondo”
Con il suo “Buonasera!” pronunciato dalla Loggia di San Pietro all’epoca della sua elezione al soglio pontificio, finiva l’epoca del “primato” europeo in Vaticano. Dopo oltre un millennio di papi nati e formati entro le coordinate culturali del vecchio continente, è arrivato un Papa argentino, gesuita, figlio della migrazione e degli strascichi del peronismo, profondamente segnato dalle disuguaglianze e dalle vicende politiche di quel martoriato Sud globale. E questo non ha rappresentato solo un fatto geografico: è stato un terremoto politico e culturale. Francesco ha smesso di parlare la lingua del potere - anche quando ha trattato con i potenti - per dare voce agli scartati. Ha scelto la povertà come cifra ecclesiale, la sinodalità come metodo, il dialogo come orizzonte. Ha criticato apertamente alcune storture del neoliberismo, ha messo in discussione le logiche della guerra giusta, ha aperto la Chiesa a una nuova sensibilità ecologica e sociale. E in questo ha disallineato il papato dall’Occidente liberale e dalle sue priorità, inimicandosi non pochi poteri — in particolare tra gli ultra-conservatori americani e tra i tradizionalisti ecclesiali europei.
Un papa ecologista
Con l’Enciclica “Laudato si’” (2015) Francesco ha spostato la cura dell’ambiente dal ruolo di “tema accessorio” a quello di “urgenza spirituale e morale” per tutti i cristiani. La lettera non parlava solo di emissioni di CO₂ o di salvaguardia delle specie, ma di un’“ecologia integrale” che avrebbe dovuto mettere insieme la difesa del creato e la lotta alle disuguaglianze sociali. Per Francesco non si poteva separare il grido della Terra dal grido dei poveri: il degrado ecologico è insieme sfruttamento di risorse naturali e sfruttamento umano. Ha lanciato l’idea della conversione ecologica, secondo cui ogni comunità, ogni nazione e ogni individuo è chiamato a cambiare stile di vita, modelli di produzione e consumi, per arrestare una crisi che minaccia l’“abitabilità” del pianeta. Ha coinvolto vescovi, religiosi, sindaci, movimenti giovanili e leader politici in un “patto” per la cura del creato, rendendo la Chiesa motore di dibattito pubblico su clima, energia, acqua e biodiversità. Ha problematizzato e riempito di senso politico una delle sfide più impellenti del nostro tempo.
Un papa diplomatico
Francesco ha dato nuova linfa anche alla diplomazia vaticana, interpretandola come una “politica di prossimità”, fatta non solo di accordi tra Stati, ma di incontro con le persone, le famiglie, le periferie esistenziali. Ha intensificato il dialogo inter-religioso, incontrando ripetutamente i leader musulmani - come nello storico incontro di Abu Dhabi del 2019 -, promuovendo viaggi ebraico-cristiani, o rilanciando l’ecumenismo con gli ortodossi. Ha aperto canali di dialogo anche con regimi non democratici - Cina e Cuba, in primis -, per costruire spazi di libertà, pur tra molte contraddizioni. Ha usato la diplomazia del gesto: baciando i piedi dei profughi, lavando i piedi dei carcerati, portando alla ribalta storie di umanità remota dai salotti del potere.

Un papa riformista
Sul piano interno, Francesco ha provato a rivoluzionare l’organizzazione e la struttura dei vertici vaticani. Ha istituito il Consiglio dei Cardinali per assisterlo nella riforma della Curia, con mandato di ridisegnare ruoli, competenze e processi decisionali. Ha consolidato i poteri dell’Autorità di Informazione Finanziaria (AIF) per controllare le attività bancarie e gli investimenti vaticani, sottoponendo l’IOR (il famigerato Istituto per le Opere di Religione) a regolamentazioni internazionali anti-riciclaggio. Ha promosso la pubblicazione dei bilanci del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano e del Fondo per gli Operatori della Carità, imponendo criteri di rendicontazione e trasparenza finanziaria fino ad allora inediti. Ha poi avviato procedimenti disciplinari contro alti funzionari coinvolti in scandali di malversazione, abusi sessuali e corruzione, dimostrando che nessuno è al di sopra delle regole. Nemmeno la curia.
Un papa digitale
Francesco verrà ricordato anche, secondo me, come il primo Papa dell’era digitale. E con ciò non mi riferisco solamente alla sua presenza innovativa sui social network - è stato il primo Pontefice a inaugurare canali ufficiali su Twitter (@Pontifex) in nove lingue simultanee, raggiungendo decine di milioni di follower e trasformando ogni tweet in un momento di magistero globale. O al fatto che abbia partecipato attivamente a iniziative streaming e podcast, come il “Popecast” di Radio Vaticana, utilizzando un formato radiofonico familiare alle nuove generazioni. Mi riferisco al fatto che, comprendendo la portata innovativa delle nuove tecnologie e dello spazio digitale, Francesco ha rivoluzionato il rapporto del Vaticano con le tecnologie digitali: liturgie e momenti solenni sono state trasmesse in live streaming con milioni di utenti, trasformando le piazze virtuali in “piazze del popolo”. Sotto il suo pontificato è nata la Segreteria per la Comunicazione (oggi Dicastero) per ottimizzare il rapporto comunicativo della Santa Sede verso l’esterno, anche attraverso la costituzione di piattaforme, canali e testate - come Vatican News, nata nel 2017, per raggiungere un’audience digitale internazionale. Ma non è tutto.
Francesco non si è limitato ad usare la tecnologia: l’ha problematizzata, e ne ha fatto un terreno di missione, riflessione, di governance. Ha trasformato il papato in un’esperienza cross-mediale, ponendo le basi perché la Chiesa non solo parli al mondo digitale, ma ne diventi parte attiva e critica. E questo, in un’epoca in cui la dimensione spirituale dell’uomo è ridefinita da forze tecnologiche senza precedenti, non è poca cosa. Francesco ha intuito molto presto — prima di molti capi di Stato — la portata antropologica della rivoluzione dell’IA. Ha parlato più volte dei rischi di un’intelligenza artificiale “disumanizzante”, che può amplificare le disuguaglianze, rafforzare il controllo dei potenti, ridurre la persona a un dato da analizzare. Ha denunciato l’opacità degli algoritmi, l’assenza di responsabilità, la possibilità che dietro una macchina senza volto si nascondano nuove forme di dominio e sfruttamento. Ha anche cercato di costruire un’etica globale per l’IA, lanciando il progetto Rome Call for AI Ethics, coinvolgendo imprese, governi, università. Ha voluto parlare con i padroni dell’algoritmo — da Microsoft a IBM — nel tentativo di spingerli a una governance più umana e trasparente del dominio digitale. Non sempre con risultati concreti, ma con una lucidità profetica che pochi altri leader mondiali hanno avuto. In questo senso, Francesco ha fatto della Chiesa un soggetto attivo nella ridefinizione del confine tra umano e tecnologico. Dal pulpito al podcast, dal sinodo ai server, la Chiesa ha sempre dovuto misurarsi con la tecnica. Ma Francesco aveva capito che la tecnologia non sarebbe stata più solo un medium. Sarebbe diventato un vero e proprio un ambiente antropologico.
Tutto questo apre scenari inediti. Il prossimo conclave sarà sì il primo dopo Francesco, ma anche — e forse soprattutto — il primo conclave del mondo multipolare. E sarà un conclave profondamente politico e politicizzato. Perché? Perché sebbene l’influenza della politica “laica” non sia una una novità negli affari vaticani — imperatori, re e governi hanno sempre cercato di influenzare l'elezione del papa - ciò che probabilmente rappresenta l'elemento di novità di questo appuntamento è la convergenza inedita tra polarizzazione globale, crisi istituzionale della Chiesa e pressioni esterne inedite — politiche, digitali e ideologiche — che trasformano la scelta del papa in un atto globale di potere.
Le categorie del passato — cardinali conservatori vs cardinali progressisti, cardinal europei vs cardinali americani — non bastano più. Oggi la politica entra nel conclave in modo nuovo, senza più un “centro” capace di orientare il tutto. L’influenza europea è in declino, non solo per il numero decrescente di cardinali, ma per la debolezza culturale e strategica del cattolicesimo occidentale. Gli Stati Uniti, un tempo bastione missionario e dottrinale, sono spaccati da una guerra interna tra cattolicesimo sociale e identitarismo teologico-conservatore. L’America Latina cerca un successore spirituale, ma ha perso compattezza politica. L’Africa avanza con numeri e vitalità, ma è eterogenea, mentre l’Asia — e soprattutto la Cina — rappresenta una sfida che va ben oltre i confini della Chiesa.
In senso politico, Francesco si è distinto enormemente dai suoi predecessori. Giovanni Paolo II per esempio, seppur sia stato una figura potentemente storica, ha incentrato il suo pontificato - politicamente parlando - in senso prevalentemente anti-totalitario, sull’idea di difesa della libertà religiosa e dei diritti umani contro il comunismo sovietico e le sue derivazioni. Il suo pontificato ha avuto una chiara dimensione politica, ma a servizio dell’Occidente democratico-liberale, specie nei primi decenni. È stato il papa della Guerra Fredda e del post-1989, sempre attento a tenere insieme fede e cultura europea. Benedetto XVI, al contrario, ha scelto una postura teologico-intellettuale. È stato il Papa del logos, del tentativo di ricomporre la frattura tra fede e ragione nel cuore dell’Europa secolarizzata. La sua “politica”, se così si può dire, era una politica della verità: far risuonare il cristianesimo come risposta razionale, non solo spirituale, al nichilismo contemporaneo. È stato un papa della crisi culturale, non della trasformazione storica.
Francesco ha rotto questo schema. Non è partito dall’Europa, non dalla dottrina, e tantomeno dalla crisi dell’Occidente. Francesco è partito dal mondo. Anzi, dalla “fine del mondo”. E dentro di esso ha preso una posizione. È stato il primo papa per cui la politica non è stata solo uno spazio da proteggere o da rifiutare, ma un campo da abitare - nel bene e nel male. Indipendentemente dalle sue posizioni, sulle quali si può concordare o meno, Francesco ha dimostrato di possedere la statura e il carisma di un leader globale, in senso weberiano.
Per questo il prossimo conclave non sarà soltanto un momento di scelta religiosa. Come ogni momento che segue la scomparsa di un leader “ingombrante”, tutto viene rimesso nelle mani dei quadri di partito, del gruppo, della comunità, e in questo caso dei cardinali, per capitalizzare o depauperare l’eredità lasciata. La scelta per riempire "la “sedes vacans” lasciata da Francesco sarà una scelta di campo. Sarà una scelta che segnerà, comunque vada, la continuazione o la fine dell’epoca segnata dal papa argentino. Sarà anche uno specchio del mondo che cambia, della crisi dell’Occidente come “lingua franca” anche nella Chiesa, e della fatica — ma anche della speranza — di trovare una nuova sintesi tra fede e globalizzazione, tra pluralismo e unità. Il mondo multipolare è entrato nella Chiesa. Ora tocca alla Chiesa decidere come starci dentro.
Il rapporto tra il papato e la politica non è un incidente del presente, né una deviazione rispetto a un’origine presuntamente “spirituale” o “pura” della funzione petrina. Al contrario, esso affonda le sue radici nella storia più profonda dell’Europa, in un’epoca in cui il trono di Pietro era percepito come una pedina centrale nel grande scacchiere continentale, e il conclave come una posta in gioco strategica nei delicati equilibri tra le monarchie cattoliche.
Tra il XVII e il XIX secolo, Francia, Austria e Spagna — i grandi regni della cattolicità — esercitavano un’influenza diretta e codificata sulla scelta del pontefice. Lo facevano attraverso lo jus exclusivae, il “diritto di esclusiva”, ovvero il potere di opporsi formalmente all’elezione di un candidato ritenuto sgradito. Era una prassi non scritta ma riconosciuta, frutto di un equilibrio tra le potenze e la Curia romana, che dava agli ambasciatori accreditati presso il Vaticano un ruolo tanto discreto quanto decisivo. Erano loro a trasmettere i desiderata delle corti, a negoziare appoggi tra le fazioni cardinalizie, a far pervenire al momento opportuno l’exclusiva nelle mani di un porporato compiacente. E se la cosa non funzionava, si attendeva il conclave successivo. Come nel caso clamoroso del 1903, quando il veto dell’impero austro-ungarico bloccò l’elezione del cardinale Rampolla, costringendo i cardinali a convergere su un altro candidato: Giuseppe Sarto, futuro Pio X, che poi abolì per sempre lo ius exclusivae.
Del resto, ogni conclave è sempre stato, in fondo, un atto politico. La scelta di un papa non è mai stata solo una questione di fede, ma anche di equilibri politici, culturali, ideologici. Ogni papa è una risposta a una domanda del suo tempo, un segnale al mondo. L’elezione di Roncalli, Giovanni XXIII, fu una sorpresa che aprì alla stagione conciliare. Quella di Wojtyła, primo papa non italiano dopo secoli, fu un messaggio fortissimo nella guerra fredda, una sfida diretta all’URSS.
Ma a minare la sacralità del conclave e la sua pretesa di autonomia spirituale non è stata sempre e solo la politica. A partire dal XVI secolo un’innovazione ben più radicale cambiò per sempre la percezione del ruolo papale: la stampa a caratteri mobili. Con l’invenzione di Gutenberg e la successiva diffusione della tipografia, Roma divenne uno dei principali centri editoriali europei. In pochi decenni, la produzione libraria passò dalle mani degli amanuensi a quelle degli stampatori: e con essa cambiò la natura della parola, che da strumento di trasmissione del sapere diventava anche arma di propaganda, satira, denuncia. I conclavi cominciarono così a essere raccontati, commentati, deformati. Libelli anonimi circolavano tra le botteghe e i palazzi, rivelando i retroscena delle elezioni, veri o presunti. Satire illustrate raffiguravano i cardinali come intriganti affamati di potere, mentre i pettegolezzi sui vizi e le ambizioni dei porporati finivano stampati e letti in tutta Europa. La segretezza del conclave, pensata come garanzia di libertà spirituale, si incrinava sotto la pressione dell’opinione pubblica — o, per meglio dire, di quella prima forma di sfera pubblica urbana, fatta di lettori, bottegai, funzionari, aristocratici curiosi.

A quel punto, la Chiesa capì che non bastava governare i riti e i dogmi: occorreva anche difendere — e costruire — la propria immagine. Da allora, ogni epoca ha avuto la sua “strategia mediatica” del papato, anche prima che il termine esistesse. Il Settecento illuminista sfidò Roma con l’arma del razionalismo e della caricatura; l’Ottocento liberale colpì l’autorità del pontefice con la stampa politica e la nascita della stampa quotidiana. Ma fu il Novecento, con l’irrompere dei mass media di massa, a trasformare il papa in una figura globale.
Nel cuore della Seconda guerra mondiale, nel 1943, Pio XII parlò alla radio in più di quaranta lingue, esercitando una presenza spirituale ma anche politica in un’Europa dilaniata. La sua voce attraversava le frontiere, raggiungeva le case, si insinuava nelle pieghe dei regimi. La Chiesa, che per secoli aveva diffidato dei “rumori del mondo”, imparava ora a servirsene per portare la propria voce nel cuore del secolo. Il Concilio Vaticano II, convocato da Giovanni XXIII nel 1962, fu il primo evento ecclesiale pensato anche come evento mediatico. Le telecamere della RAI entravano in Vaticano, e il Papa parlava direttamente agli italiani: il celebre discorso della “carezza ai bambini”, pronunciato dalla finestra del Palazzo Apostolico, fu un momento di straordinaria forza simbolica, in cui il successore di Pietro si presentava non come un giudice, ma come un padre.
Giovanni Paolo II portò questo modello a compimento. Fu il primo papa a viaggiare sistematicamente in tutti i continenti, trasformando ogni visita in un evento mediatico globale. I suoi discorsi, le sue messe oceaniche, le Giornate Mondiali della Gioventù divennero strumenti di evangelizzazione, ma anche di costruzione dell’autorità papale su scala planetaria. Il papa polacco comprendeva intuitivamente che, in un mondo dominato dalle immagini, non bastava parlare: bisognava essere visti.
Con l’avvento di Internet, la Santa Sede mosse i primi passi nel mondo digitale. Ma è solo con Francesco che la Chiesa ha compiuto un vero ritorno nella storia. Dopo anni in cui il papato sembrava concentrato su una dimensione quasi extra-contemporanea — dogmatica, liturgica, autoreferenziale — il pontificato di Bergoglio ha riportato la Chiesa nel cuore delle contraddizioni del mondo. Ha riletto il Vangelo alla luce delle fratture del presente: le diseguaglianze sociali, la crisi ambientale, le migrazioni, il rapporto tra tecnica e dignità umana. In questo senso, Francesco ha agito come un vero riformatore, ma anche come un realista della storia: ha accettato che la Chiesa non può sottrarsi al tempo, ma deve attraversarlo. Ha posto, insomma, la Chiesa come interlocutore attivo del XXI secolo, non come testimone silenzioso.
E così, oggi come ieri, scegliere un Papa non significa solo scegliere una guida spirituale. Dal jus exclusivae alla radio, dai libelli settecenteschi a Twitter, dai foglietti di piazza Navona alle piattaforme di AI, il papato è sempre stato al crocevia tra fede e potere, tra passato, presente e futuro. Comprenderne la storia è il primo passo per comprendere la posta in gioco del conclave che verrà.
Conclave: È il momento più misterioso e solenne della Chiesa cattolica: quando un papa muore o si dimette, i cardinali elettori si riuniscono in Vaticano, chiusi a chiave (dal latino cum clave) per scegliere il suo successore.
Niente telefoni, niente giornali, niente contatti con l’esterno. Solo voti, preghiere e, se serve, tanta pazienza. Se passa troppo tempo senza accordo, si riducono anche i pasti, per spingere la decisione.
Finché non si vede la fumata bianca dal camino della Cappella Sistina, tutto il mondo resta con il fiato sospeso. E poi, finalmente: “Habemus Papam”.
Nel 1268 morì papa Clemente IV, e i cardinali si riunirono a Viterbo per eleggere il nuovo pontefice. Ma quello che doveva essere un’elezione di pochi giorni si trasformò in un’attesa di quasi tre anni. Fu il conclave più lungo della storia della Chiesa, durato 33 mesi, dal 1268 al 1271.
Il motivo? I cardinali non riuscivano a mettersi d’accordo. Le fazioni erano divise tra chi sosteneva i francesi e chi voleva difendere l’autonomia del papato. Ognuno bloccava il candidato dell’altro, e così, per mesi e poi anni, nessuno riusciva ad ottenere i voti necessari.
La città di Viterbo, che ospitava il conclave, perse presto la pazienza. La storia e leggenda raccontano che per costringere i cardinali a decidere, i cittadini presero misure drastiche: murarono le uscite del palazzo, ridussero i cardinali a pane a acqua, e addirittura tolsero parte del tetto, lasciandoli sotto sole e pioggia.
Alla fine, stanchi e pressati, i cardinali fecero qualcosa di inedito: scelsero un papa che non era nemmeno tra loro. Teobaldo Visconti, un arcidiacono di Liegi che in quel momento si trovava in Terra Santa, che venne eletto per acclamazione. Accettò e prese il nome di Gregorio X.
Appena salito al soglio pontificio, una delle sue prime decisioni fu riformare il sistema del conclave, con regole severe: i cardinali da allora dovevano rimanere chiusi a chiave, senza contatti con l’esterno, e con vitto sempre più ristretto se l’elezione tardava. Fu proprio Gregorio X a pubblicare la costituzione apostolica “Ubi periculum” citata nell’intro della newsletter di questo mese. Così nacque il moderno conclave, proprio per evitare di dover aspettare di nuovo tre anni per un papa.
“Il Conclave e l'elezione del papa. Una storia dal I al XXI secolo” di Alberto Melloni (2025): Come si elegge un papa? E perché il conclave resta, ancora oggi, uno degli eventi più politici e affascinanti del nostro tempo? Questo libro racconta la storia millenaria dell’elezione del vescovo di Roma, dai primi secoli alla modernità, con documenti inediti e fonti diplomatiche, ricostruita dallo storico del cattolicesimo più importante che abbiamo.
“L'atlante di Francesco. Vaticano e politica internazionale” di Antonio Spadaro (2023): volete avere una mappa dei viaggi, dei gesti, delle connessioni diplomatiche e della geopolitica del pontificato di Francesco? Bene, questo è il libro che fa per voi, scritto da un insider: gesuita, vicinissimo a Bergoglio e sotto-segretario del Dicastero per la cultura e l’educazione del Vaticano.
Un podcast: “Conclave - Il Trono di Pietro”, di Antonio Cristiano e Marco Grieco (2025): dal giorno della morte di papa Francesco al giorno in cui comincerà il conclave, Antonio Cristiano (giornalista) e Marco Grieco (vaticanista) ci accompagnano, attraverso un appuntamento quotidiano godibilissimo, sorvolando la Basilica di San Pietro, per darci tutti gli approfondimenti necessari in questi giorni di apostolica sedes vacans.
Ci vediamo il mese prossimo.
Gregorio